Premessa: ogni riferimento a fatti e persone è molto poco casuale.
Se esiste una prova tangibile della riuscita di un Erasmus, quella prova sono i ritrovi Erasmus. Si preparano senza eccessivo preavviso. Si sa che si mangerà e berrà molto, che si rievocheranno fatti e persone ridendo con la stessa intensità dell’anno prima e di quello prima ancora. Gli aneddoti saranno più o meno sempre gli stessi, accompagnati da supporti multimediali. Il resto viene da sé. Conosciuta, amata, consumata, Parigi ce la siamo vissuta così, tra facoltà di Lettere ed Economia, incroci di amicizie, metro, Vélib, squat, pic nic, musei, mercati delle pulci quelli veri, personaggi più o meno surreali, kebab, mense del Crous, raclette, voli rimandati per neve, infatuazioni parigine, pain aux raisins, gossip internazionali, lagne varie, entusiasmi da vita nuova. Il dopo è stato lauree, stage, master, viaggi, quasi lavori, lavori, ritorni al nido, estero e poi di nuovo nido. E ancora, nuova ricerca della casa, nuovi amici, nuovi caffè, nuovi abbonamenti metro. Poi siamo tornati tutti in Italia.
Ci si rivede. Romani, senesi, lodigiani e genovesi. Ospitati per qualche giorno nella città natale dell’amico che viveva a Chatelet, presentato dalla lodigiana che viveva a Barbès. Qualche inverno fa, quando abbiamo sperimentato la prima volta questa faccenda del ritrovo Eramsus, abbiamo cominciato tra i ponti di Venezia scoprendo il valore dell’ombra di vino e dei cicchetti. Il naso sotto la sciarpa, alienanti canali che evaporavano tra la foschia e i racconti del romano che aveva appena iniziato il master lì e che un giorno si era fermato e aveva pensato Oh, sono dieci giorni che non prendo la macchina. Io arrivavo da Bruxelles e pensavo che poi, dopotutto, tornare in Italia non sarebbe stato così male.. L’inverno dopo ci siamo sdraiati sul muretto del Giardino degli Aranci – lo racconto cliccandoci –. Dritta davanti a noi Roma, in mano le bucce dei mandarini. Poi, stanchi della vita da turisti per un fine settimana, ci siamo seduti sulla moquette rossa del Teatro Valle mentre faceva buio. Finendo poi per perderci nel silenzio del cortile di Santa Cecilia e nella maestosità di Caravaggio. A Torino, l’anno scorso, abbiamo chiuso quattro anni di amicizia in una scatola e l’abbiamo regalata all’amica senese che partiva per il Cile. Una bussola, dei libri, un quadernetto perché scrivere è importante, un preservativo. Quell’inverno abbiamo passeggiato nella pioggia del Quadrilatero torinese, assaggiato kebab a San Salvario e fatto da pubblico al concertino dal balconcino.
Sono passati cinque anni da quando non parlavo francese eppure trovavo il modo di comunicare con un idraulico al telefono o con Jussef, l’elettricista. Impiegavo due ore e trenta per leggere una pagina de l’Ingénu di Voltaire. Avrei fatto il primo esame su di lui, con la stessa ansia della notte della maturità o della notte del primo esame alla Sapienza. La Lirica del ‘200. Ecco, sono passati cinque anni. Intanto ci siamo laureati, più o meno innamorati, abbiamo fatto politica, abbiamo scoperto come si cresce pur non avendo un lavoro fisso e imparato che in famiglia, dopo l’adolescenza e il primo anno all’estero, si torna e non si è soltanto solo figli ma si diventa qualcosa in più. Un anno dopo ci si rivede e ci si aggiorna, allenandosi al ricordo. E si capisce che è passato il tempo quando si ride per ciò che aveva fatto soffrire. Che viene da chiedersi, ma continuerà così pure l’anno prossimo questa cosa della città dell’amico Erasmus in grado di tenere assieme tutto? I racconti si perdono tra le passeggiate, i vicoli, Genova. I dialetti, i nostri, si attaccano alle parole sui muri. Perché, mi spiegano e lo vedo bene, a Genova si scrive sui muri. Il risultato è un inaspettato museo di strada che sbalordisce più di mastodontici murales, a volte.
GENOVA SCRIVE SUI MURI
Ci sono delle meraviglie chiamate focaccia di Recco, che mangiata tra le tre e le quattro di mattina fa impazzire. Se chiami pizza la focaccia si incazzano sti genovesi, come i toscani. E c’è il sapore, quello vero, del pesto mai provato. Genova in due giorni è capace di succhiarti l’ansia via, steso sul muretto a Boccadasse, col sole in faccia, la testa sulle gambe di un amico, l’eco del mare e del dialetto lodigiano, senese o genovese. E poi Parigi in testa e i prossimi cinque anni chissà dove.
La notte scorre anche tra gli scogli vicino a Sant’Erasmo. Castelletto, in salita, è il quartiere più bello. E la città, mentre scorre dal finestrino, sembra non finire. Allora chiedo sempre se Siamo ancora dentro Genova e mi dicono di sì. E mentre riconosco muri e piazze, quelle che avevo scoperto girando con la troupe di giapponesi anni fa, mi ricordo di quando a diciannove anni arrivai in ostello per la prima volta qui. Dovevo seguire un workshop di una piccola radio, nel caso in cui mi fosse piaciuto, nella vita, fare questo mestiere.. Genova arancio al tramonto smorza il freddo, anche se c’è vento. Svicoliamo e finiamo sempre in piazzette. Piazza della Lavagna, Piazza Campetto, Piazza San Cosimato, Piazza Lampadi, Piazza Banchi con Zimino, la trattoria dove assaggi tutto.
Ripiombiamo a Parigi tre le foto di Brassai a Palazzo Ducale. Decine e decine di dettagli parigini che noi siamo convinti di aver fotografato coi cellulari 60 anni dopo. Nessuno lo dice, ma.. La sezione sui graffiti parigini, estranea ai pavée e ai giardini di Luxembourg, è curiosa. Così come la scoperta di Lisetta Carmi, fotografa genovese che lavorò, tra le altre cose, nella descrizione fotografica delle vite dei travestiti in città. I sottotitoli delle due mostre ingannano. Pour l’amour de Paris, quella di Brassai e Il senso della vita, quella di Lisetta Carmi. In realtà nelle foto c’è un po’ più di quello che dicono i due titoli vuoti. Alla fine, quando l’ultimo angolo di Genova è stato raccontato, ci si saluta sempre con quell’ovosodo dentro. Tra un muro che lancia messaggi alla Moccia, la carcassa arrugginita della Concordia, i minuscoli giretti in città e quell’Erasmus parigino sempre accanto. Oh l’anno prossimo città e poi Spa, che magari lavoriamo tutti, magari.