Premessa: non è una guida né pretende di esserlo. Vago tra i sampietrini col telefono in mano e ricordi sparsi in testa. Niente di più, niente di meno.
PERCORSO 1: da via del Pellegrino o via dei Cappellari
In una giornata qualsiasi di primavera qui, a Campo dé Fiori il cielo alle sette è indaco. Non è azzurro, è indaco – lo uso solo per pignoleria cromatica perché è proprio indaco – e dai profili dei tetti in su riempie tutto. Seduta in un mini tavolinetto tondo di Via del Pellegrino assaggio un pezzetto di torta alla carota, una di quelle che deve essere fatta con le bustine che mantengono il sapore uguale in ogni parte del mondo, perché al primo morso c’è la stessa cannella dei tranci di quelle finte backery americane sparse ovunque. Ci facevo colazione a Bruxelles per smettere di lamentarmi del cibo belga e cominciare a farlo con quello statunitense. Tutte le gradazioni di arancione sono raccolte poco prima di arrivare in quella strada, che da Banchi Vecchi diventa Pellegrino. Il bianco della Chiesa Nuova te lo scordi a Piazza della Moretta. A Carolì, non vedi quant’è bella Roma? Pare che il padre di una mia compagna delle medie glielo dicesse ogni volta che passavano lì. Poi se uscivamo dal Virgilio insieme me lo ripeteva. Ci ripenso sempre a ‘sta cosa. Nel frattempo l’affitta film che durò pochissimi anni vende abbigliamento di pelle e molte cose incomprensibili con le frange. Insomma Via del Pellegrino – in cui dai mesi estivi una linea di vernice bianca indica ai pedoni dove camminare – è un negozio che in vetrina ha dei bonsai fortissimi, è il casalinghi, sono le borse e le sedie di paglia, è il bar dove lavora l’amico F., la Libreria del viaggiatore, la Libreria Ardengo. Due agosti fa ci comprai La noia, solo perché mi faceva ridere che fosse esposto sopra al contatore della luce, a ricordarci dell’inutilità dei pomeriggi d’agosto in città. Ora c’è al posto de La Noia c’è un pacchetto di Philip Morris accartocciato. Da Collalti ci compri le bici belle e radical, al 109 c’è il negozio di giocattoli che se lo vedi vuoi diventare genitore.
A Via dei Cappellari il negozio vintage tutto nuovo e super hypster sta accanto ai falegnami, agli antiquari, alla libreria. Scopro che c’è nato il Metastasio. Fino ai quindici anni mia madre mi diceva Stai attenta se passi là, col terrorismo dei ricordi da Rione d’un tempo. Ora è luogo chiccosissimo, e lo sa pure lei. E infatti tra i nuovi posti c’è pure 1. Una Simil Hamburgheseria 2. Una gioielleria con anelli super cool 3. Qualche Galleria d’arte e simili. Verso la fine, quando arrivo all’altezza dell’arco di Santa Margherita, insieme all’odore di chi la sera ci piscia c’è il ricordo delle serate allo Sham, oltre l’arco. Interi sabati sera di liceo a fumare Narghilè e svariate vomitate della cara amica A. dalle quali deducemmo un’allergia al tabacco. Ma non approfondimmo la storia. Poi, verso la fine, prima che l’odore del Forno si imponga prepotente e squisito, c’è una coloreria. Non so cosa sia esattamente quel posto ma nello stesso contenitore in cui a casa mia si tengono gli Oro Saiwa sfusi, sono racchiuse polveri colorate.
PERCORSO 2: da Via dé Baullari
La Piazza cambia sempre. Ma i piedi sguisciano allo stesso modo sui sanpietrini dopo che le spazzole Ama hanno ripulito i resti del mercato, lasciandoti nel naso un odore acre. Di banchi vecchi, quelli della frutta e del pesce, ne sono rimasti pochi. Poi è solo un susseguirsi di pacchetti di pasta ben allineati, boccette di olio, sciarpe sintetiche e buste di spezie. In Via dé Baullari ormai anche Blu Ice ha cambiato insegna. S’è modernizzato: ora non è più giallo e blu ma argento- futuro. In mezzo alle cose nuove resistono baretti. Anche il barbiere adesso è Barber shop. Nelle bancarelle Italia/I Love Roma/Romaseimia è declinato in tutti i modi e monumenti possibili. Ho fame, ho fame, ho fame, si lamenta un ragazzino grasso di una scolaresca con le divise tutte uguali, blu nauseante. Ingoia l’aria. La maestra è saggia. Roma antica nun esiste più. Ce stanno sti postacci de merda coi sedili giallo rossi. Cucina romana..ma che davero? E’ incazzato davvero l’omone che lo dice alla moglie spingendo un passeggino. La cupola di Sant’Andrea della Valle sbuca massiccia da Piazza del Teatro di Pompeo e se ti guardi indietro, prima di arrivare nella Piazza, sbuca pure la cupola più bella del mondo, Sant’Ivo alla Sapienza.
ARRIVO!
Irrompere nella Piazza alle sei fa traballare. Soprattutto nei mesi in cui fa caldo o il tempo è quello di Roma, tiepido. Quando fa freddo è tutto più smorzato. In primavera e in estate tutto si mescola con tutto: i cappelli, i turisti, i nuovi romani, i fiori esplosi. Le zucche dei banchi a ottobre prendono il posto di un grattacheccaio indiano. Sul banco di frutta di un vecchio romano c’è una cesta e un canetto – e questo avviene in tutte le stagioni -. Accanto i pomodori. Il nasone – fontanella, per i non romani – è lì, e la piazza la rivedo sempre dal basso. Dall’altezza dei sabato mattina quando mio padre ci portava alla Biblioteca di San Paolo alla Regola, dopo la pizza. Ci torno spesso là davanti, la Biblioteca dei Ragazzi, e ogni volta – non proprio ogni, ma quasi ogni- faccio una foto, con in testa la piazza dal basso, quando la guardavo tenendo mio padre dal mignolo della mano.
I tavolini si accavallano e gli indianini che vendono cover di iPhone con orecchie di varie specie, pure. Sotto c’è la musica di un violino talemente triste da rovinare tutto. Superato l’archetto da piazza del Biscione, di nuovo la puzza di piscio porta al Teatro di Pompeo. Lì sta tutto in silenzio. E la forma della strada, curva, che riproduce quello dell’antica cavea, un po’ culla. C’è soltanto il rumore dell’ago elettrico acceso nel negozio di tatuaggi là come sottofondo. D’inverno il bicchierino di succo di mandarino offerto a fine cena lì dal Pallaro, la trattoria, rende tutto più dolce.
La sera, verso le sette, la musica jazz rianima tutto. Mi piace guardare la scritta Farnese del cinema. La piazza balla e quasi mette buon umore. Pure se a Via dei Giubbonari c’è sempre un casino e ti prendi un sacco di borsettate di ragazze che vanno di corsa, e pure se quando entri in uno di quei due negozietti in cui tutto sembra costare 5 euro perché i cartelli scritti col pennarello lo dicono ma poi scopri che niente è sotto i 20, ecco, pure se entri lì e le ragazzette ti si accollano in modo esagerato per appiopparti quei capi da 20 euro che pensavi costassero 5.
Largo dei librai con la chiesetta e Dar filettaro – filetti di baccalà. Il silenzio lo ritrovo a piazza della Quercia, che è romantica all’eccesso. Palazzo Spada a pochi passi da lì ti riporta alla realtà. A Piazza Farnese c’è sempre calma, forse perché è talmente grande che le voci si disperdono. O restano lì sui quei gradoni dell’Ambasciata francese dove tutti si siedono. Io co’ quello ce volavo, poi però me viè sempre la paura. No ma te capisco.. Quello, te lo dico io, ‘a casa ‘a lascia tra diec’anni. Vicolo del Gallo cusotodisce ancora un bar d’una volta, tra un kebabbaro e un nuovo pret à gourmet.
Nella Piazza, quando è primavera, i ragazzini aumentano. Il cielo diventa indaco scuro, contro il nero del cielo d’inverno, quando le luci della Libreria Fahrenheit 451 brillano di più. C’è sempre qualcuno che fa qualche bolla di sapone gigante. C’è talmente tanta vita intorno, i camerieri insistono talemte tanto per farmi sedere in uno di quei bar, che me lo immagino, uno di questi ragazzini, mentre cerca di rompere la bolla, rimane appeso, così, coi piedi penzoloni. Ci poggia la testa sopra e vola in su. Le lettere che compongono Cinema Farnese vibrano. La Effe quasi si stacca e alla fine ritrova l’equilibrio: sembra quasi Cinema Arnese. Giordano Bruno scende. Sfumacchia una micro sigaretta di un americano sbracato sugli scalini. Sfila una fetta di mozzarella su una delle pizze esplicative del baretto a sinistra e cammina via. Nessuno se ne accorge, tanto è buio. Qualcuno osserva la sagoma col cappuccio mentre a passi lenti cammina verso il Bar Perù.
Via di Monserrato sta sempre zitta. Impossibile riempirla con musica da cuffiette per eccessivo turbinìo emotivo. A volte aspetta che le macchine lascino passare i pedoni che sennò non hanno spazio. In quei momenti ripiomba il silenzio interrotto solo dai motori. Cammino pure io, che in quella via ho fatto la prima intervista radiofonica sulla monnezza a Roma e che più in giù, vicino a un cartello artigianale in cui ci si chiede chi sia Lo stronzo che ha versato la creolina in strada, ho aspettato il primo bacio di una storia importante. Tornando verso casa è tutto già buio. Di quell’azzurro, anzi, dell’indaco non resta niente già dalle cinque. A vicolo Cellini qualcuno mi ricorda già che è Natale.